Outlive: la longevità secondo Peter Attia
Dal concetto di healthspan alla medicina 3.0: un viaggio tra scienza, prevenzione e responsabilità personale per vivere più a lungo, ma farlo meglio.
Sono stato molto combattuto se scrivere o meno questo approfondimento: non ero sicuro di volermi esporre sul tema della longevità, una parola che evoca tanti punti di vista e approcci differenti. A qualcuno potrebbe subito venire in mente Bryan Johnson, un imprenditore che sta dedicando la sua vita (e i suoi soldi, molti soldi) a cercare di rimandare il più possibile l’appuntamento con la morte e il decadimento del suo corpo, con tecniche varie e in molti casi più che discutibili. Non posso infatti negare che parlare di longevità sia diventato in parte un trend, soprattutto tra le persone facoltose, che spesso mettono in pratica “protocolli” senza alcun fondamento scientifico.
È chiaro che mi vorrei tenere il più lontano possibile da questi invasati. Inoltre, non essendo un medico, non ho tutte le competenze necessarie per poter parlare e discutere in modo approfondito degli aspetti più tecnici di tutto ciò che riguarda l’invecchiamento e la prevenzione.
Dall’altro lato, il mio interesse per il benessere e quello che possiamo fare per vivere meglio mi ha attirato come una calamita verso Outlive di Peter Attia, un testo di cui avevo sentito a lungo parlare, che ha già venduto oltre due milioni di copie e che recentemente (il 6 giugno 2025) è stato pubblicato anche in italiano dalla casa editrice Sangiovanni’s.
Uno degli aspetti interessanti è il profilo del suo autore: un medico “eretico”, che è passato dal bisturi alla gestione del rischio e poi è tornato a curare, ma in modo diverso. Dal mio punto di vista Attia aggiunge un punto a favore della tesi contenuta nel libro Generalisti (titolo originale Range) di David Epstein (che consiglio molto), ossia che mettendo insieme competenze e prospettive che vengono da mondi diversi si ha una maggiore probabilità di ottenere idee innovative.
E poi il messaggio di fondo è per me ampiamente condivisibile: il punto non è tanto come diventare immortali o vivere più a lungo e stop. Il nostro obiettivo dovrebbe essere chiederci come possiamo trascorrere una maggiore porzione della nostra esistenza in buona salute, quindi non gravati da patologie (soprattutto se croniche) e non in condizioni di dipendenza.
Healthspan vs Lifespan
Molti studiosi sono convinti che esista un limite al numero di anni che un essere umano può vivere, ma senza scomodare necessariamente gli studi scientifici non credo sia il sogno di nessuno trascinarsi fino a 120 anni, passando buona parte della seconda fase della propria esistenza con la necessità di dipendere da qualcuno (caregiver, professionisti sanitari) o da qualcosa (macchinari). Vivere a lungo (senza chiedersi in che condizioni) corrisponde al concetto di lifespan (o, più in generale, aspettativa di vita). Viceversa, chiedersi come vogliamo vivere e auspicare una vita il più possibile libera da condizioni e patologie limitanti è quello che chiamiamo healthspan (o aspettativa di vita in buona salute).
Outlive si focalizza su questo secondo concetto: come facciamo a vivere bene più a lungo?
La risposta è presto data: sconfiggendo i “quattro cavalieri” che riducono la nostra aspettativa di vita in buona salute: cardiopatie, cancro, patologie neruodegenerative e diabete di tipo 2. Sono infatti questi i principali responsabili della mortalità nei paesi sviluppati, soprattutto per chi invecchia. Sono al tempo stesso quelle malattie che in molti casi impongono una “morte lenta”, perché si sviluppano in un arco di tempo lungo e senza mostrare nelle prime fasi segnali visibili. Ma c’è anche una buona notizia: sono spesso patologie rispetto alle quali sono possibili azioni preventive che, tuttavia, richiedono un cambio di paradigma nella medicina.
Medicina 3.0: un approccio proattivo e preventivo
The time to repair the roof is when the sun is shining. (John F. Kennedy)
Uno dei punti fondamentali per Peter Attia è il passaggio da Medicina 2.0 a Medicina 3.0. La prima è quella che rappresenta ancora oggi l’approccio più diffuso: si tratta di una medicina di tipo “reattivo” che, tipicamente, si attiva nel momento in cui i sintomi sono già evidenti. Per molte delle patologie croniche che rappresentano i “quattro cavalieri” ci troviamo quindi ad andare dal medico quando è già tardi, cioè come se chiamassimo l’idraulico solo quando la casa è già allagata. Ovviamente questo tipo di medicina non può e non deve scomparire e continua ad avere molto senso per casi in cui sono necessari interventi reattivi (traumi, incidenti, altre patologie non croniche). Ma deve espandersi per abbracciare anche un modo di affrontare le malattie diverso, quello della Medicina 3.0.
La Medicina 3.0, secondo Attia, si caratterizza per essere proattiva e personalizzata. Per spiegare la proattività usa questa metafora: la Medicina 3.0 è come se studiasse la meteorologia e cercasse di determinare se serve costruire un tetto migliore oppure se costruire un’arca. L’enfasi è quindi molto più sulla prevenzione che sul trattamento (focus della 2.0). Inoltre, recuperando i concetti appresi nella sua esperienza professionale precedente, l’autore enfatizza l’adozione di logiche di gestione del rischio per i pazienti: si deve partire sempre da un assessment della situazione, da una sua accettazione (contemplando anche i rischi e i benefici di non agire) e poi individuare le migliori strategie di azione.
Inoltre, questo nuovo paradigma considera il paziente come un individuo unico (mentre la Medicina 2.0 tende ad avere un approccio standardizzato). La medicina 3.0 è sempre evidence based (cioè basato sulle evidenze scientifiche), ma fa un passo in più: si chiede quanto l’individuo-paziente sia simile o diverso dal paziente “medio” su cui vengono condotte ricerche e sperimentazioni cliniche, motivo per cui preferisce parlare di evidence-informed medicine.
Anche il ruolo del paziente cambia. Bisogna essere informati, chiari e consapevoli rispetto ai propri obiettivi, nonché a conoscenza della natura dei rischi che si corrono. Inoltre, serve essere disponibili a cambiare le proprie abitudini, uscire dalla propria comfort zone, accettare nuove sfide. Bisogna affrontare tempestivamente i problemi e non rimandarli fino a che è troppo tardi, perché spaventano o ci mettono a disagio. Il paziente da passeggero della nave diventa capitano, perché decide, agisce ed è in controllo dei propri dati, grazie ai quali acquisisce maggiore consapevolezza (e in questo ho anche ritrovato molte delle riflessioni che avevo letto in un altro libro interessante, intitolato The Patient Will See You Now di Eric Topol).
Cinque ambiti su cui lavorare per invecchiare meglio
Quindi in concreto su che cosa si può lavorare, in modo preventivo e proattivo? Attia individua cinque aree principali:
Esercizio fisico. Considerato il “farmaco” più potente, gli sforzi dovrebbero concentrarsi su quattro tipi di allenamento: quelli nella cosiddetta “Zona 2” (attività fisica a bassa intensità che si concentra sul mantenimento di una frequenza cardiaca tra il 60% e il 70% della frequenza cardiaca massima), lo sviluppo della forza, il miglioramento del VO2max (una metrica che indica quanto ossigeno il tuo corpo può usare durante l'attività fisica intensa) e la stabilità.
Nutrizione. La sezione dedicata all’alimentazione è molto interessante e riassumibile nel seguente slogan: “meno ideologia, più biochimica”. In sostanza Attia dice esplicitamente di non volersi schierare a favore di alcuna tipologia di regime/filosofia alimentare, soprattutto perché i fattori che influenzano l’efficacia degli interventi relativi alla nutrizione sono tantissimi e, anche in questo caso, molto diversi da individuo a individuo. Approfondisce poi le opzioni a disposizione, riassumibili in tre possibilità: restrizione di calorie, restrizione della finestra di tempo in cui mangiare (come ad esempio può essere il digiuno intermittente) e restrizione di tipologie di cibo (eliminare alcuni alimenti dalla propria dieta).
Sonno. La mia ossessione da ormai quasi dieci anni. Anche se è stato a lungo sottovalutato dalla medicina tradizionale, il sonno si è rivelato in anni recenti fondamentale per la salute cerebrale e cardiovascolare. Una sola notte insonne può compromettere le performance cognitive quanto l’essere ubriachi (secondo gli standard di legge). Soprattutto durante il sonno profondo, il cervello effettua un “lavaggio” dei detriti intracellulari e quindi dormire bene: migliora la funzione cognitiva e la memoria, può ridurre il rischio genetico di malattie come Alzheimer e cardiopatie, ed è essenziale per l’equilibrio emotivo (vedi punto successivo).
Benessere emotivo. La salute mentale è indissolubilmente legata a quella fisica. Attia riconosce che la solitudine e la mancanza di relazioni significative aumentano la mortalità. Inoltre, attingendo alla sua esperienza personale, parla di come i comportamenti disfunzionali spesso nascono da traumi infantili (abuso, abbandono, enmeshment, ecc.). Per spiegare questi concetti usa il modello dell’albero del trauma che aiuta a comprendere come le strategie di adattamento dell’infanzia (es. perfezionismo, rabbia, dipendenza emotiva) possano diventare disfunzionali in età adulta.
Molecole esogene. È l’ultimo tipo di strategia, che però viene solo menzionata ma non approfondita perché richiederebbe una valutazione su ogni singolo caso.
Outlive: dal piano personale alla sostenibilità dei nostri sistemi
Ho concluso questa lettura molto carico di spunti di riflessione e anche con un pizzico di ottimismo. L’ottimismo deriva dal fatto che ci sono buone notizie per chi decide di fare attenzione alla longevità, intendendo prevenzione ed essere proattivi rispetto alla propria salute (e non è mai tardi per iniziare). Su alcune delle aree di investimento segnalate in Outlive mi sento anche abbastanza ben posizionato in funzione di alcuni cambiamenti introdotti nel mio stile di vita negli ultimi 10 anni: esercizio fisico regolare, più attenzione al cibo e alle bevande, priorità assoluta al sonno (per quanto possibile).
Qualche speranza la vedo anche per la sostenibilità dei sistemi sanitari e di welfare dei paesi sviluppati, a cominciare dall’Italia. Una popolazione che invecchia difficilmente potrà poggiare sugli stessi pilastri a cui siamo abituati: semplicemente non è sostenibile (aumenta la domanda di servizi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali e diminuiscono le risorse). Ma potrebbe diventare sostenibile se impariamo a cambiare paradigma.
La longevità quindi non è solo questione di anni (quanti anni vivrò e come), ma anche e soprattutto di scelte quotidiane (a livello individuale, ma anche di collettività). Ed è per questo che penso che questo libro sia un ottimo punto di partenza per ripensare il nostro rapporto con la salute.
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